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Riferimenti teorici e metodologici

Ogni terapeuta ha uno o più maestri e modelli teorici e metodologici di riferimento. È importante avere chiarezza rispetto a questa filiazione e alla propria collocazione in essa.
Al tempo stesso con il tempo ogni terapeuta sviluppa una propria personale visione e un proprio personale modo di lavorare, rimanendo più o meno fedele ad un modello appreso, integrandone differenti o elaborandone uno originale.
Vorrei qui esporre una sintesi dei modelli teorici e metodologici che rappresentano i miei personali principali riferimenti.

Indice

La psicologia umanistica

A partire dagli anni ’50 il mondo della psicologia e della psicoterapia ha vissuto una grande rivoluzione: accanto, e per diversi aspetti in antitesi, alle due grandi scuole di pensiero sino a quel momento dominanti, la psicoanalisi e il comportamentismo, inizia ad affermarsi un diverso modello che propone una differente visione dell’essere umano e della salute psicologica.
La psicologia umanistica nasce negli Stati Uniti e viene definita la terza forza della psicologia. Sebbene non abbia riferimenti teorici e metodologici unitari, si caratterizza per alcuni elementi basilari che la differenziano in modo significativo dagli altri approcci.
Nello statuto della “American Association for Humanistic Psychology” si legge: “Come ‘terza forza’ della psicologia contemporanea, [la psicologia umanistica] si interessa di argomenti che hanno avuto uno spazio limitato nelle teorie e nei sistemi esistenti: ad esempio, amore, creatività, sé, crescita, organismo, autorealizzazione, essere, divenire, spontaneità, gioco, umorismo, affetto, naturalezza, calore, trascendenza dell’io, autonomia, responsabilità, significato, esperienza trascendentale, esperienza culminante”.
Gli autori che si riconoscono in questo modello, tra cui i principali esponenti sono H. Maslow, C. Rogers, F. Pearls, R. May, G. Allport e G. Kelly, spostano l’attenzione dalla dimensione inconscia e dai condizionamenti ambientali alla costruzione cosciente dell’esperienza, alla ricerca attiva del benessere e alle relazioni reali con le altre persone e con l’ambiente. Sostengono inoltre che alla base della vita psichica e relazionale non ci sia un conflitto intrinseco e inevitabile, ma che il conflitto derivi piuttosto dalla presenza di condizioni ambientali che non favoriscono il naturale funzionamento della personalità come un tutto organizzato e armonico, e in armonia ed equilibrio con gli altri esseri umani e con l’ambiente, per quanto naturalmente a volte non privo di sofferenza e di sentimenti tra loro contrastanti.


Nella visione della psicologia umanistica l’essere umano non è passivamente subordinato a leggi deterministiche di causa-effetto, ma è concepito come un soggetto attivo, libero e responsabile, spinto da motivazioni interne proprie e attivamente impegnato nella costruzione di significati e di senso della propria esistenza. Caratteristica della psicologia umanistica è quindi la fiducia nella capacità umana di autodeterminazione: le persone non sono costrette ad un determinato destino dal loro passato o dal loro ambiente, ma sono agenti attivi nella costruzione del proprio mondo.
Il focus dell’attenzione viene inoltre spostato dalla patologia alle potenzialità di salute delle persone, da quello che “non funziona” alle risorse creative di autorealizzazione.

Carl Rogers e l’Approccio Centrato sulla Persona

Carl Rogers, uno dei principali esponenti della psicologia umanistica, ideò un modello che definì inizialmente Terapia non direttiva, in un secondo momento Terapia Centrata sul Cliente e infine Approccio Centrato sulla Persona (ACP).
Questo modello si presenta in realtà non solamente come una forma di terapia ma una vera e propria visione della natura umana e delle relazioni interpersonali.

L’ACP ha come basi il principio olistico e il principio dinamico.
Secondo il principio olistico, ogni individuo viene considerato un sistema complesso, con caratteristiche non riconducibili alla somma degli elementi che lo compongono: pensieri, emozioni, corpo, relazioni interpersonali, spiritualità sono aspetti di un tutto che tende a funzionare in modo organizzato e armonico. Lo stesso vale sia per le singole parti che costituiscono la persona (come ad esempio un organo del suo corpo, oppure la sua mente), sia per un gruppo, una famiglia, una comunità.
Secondo il principio dinamico, l’essere umano, così come ogni altro essere vivente, è un organismo attivo, che agisce in modo globale e direzionato verso il proprio mantenimento e sviluppo. Rogers chiama la natura teleologica (diretta cioè verso un fine) dell’organismo tendenza attualizzante, in quanto porta la persona a sviluppare le proprie capacità sane, creative e costruttive. E’ una spinta motivazionale che porta alla costruzione del Sé, il nucleo fondamentale della struttura della personalità.
Scopo di ogni essere vivente è quindi la tendenza alla conservazione e allo sviluppo, che opera verso l’armonizzazione con le altre persone e con l’ambiente: “L’organismo realizza se stesso nel senso della massima differenziazione di organi e funzioni. L’organismo tende ad espandersi attraverso la crescita, estendendo se stesso mediante l‘uso di strumenti e con la riproduzione. Procede verso una sempre maggiore indipendenza e autoresponsabilità” (1951) e ancora: “possiamo dire che c’è in ogni organismo, a qualsiasi livello, un flusso di movimenti verso una realizzazione costruttiva delle sue inerenti possibilità. (…) Sia che si parli di un fiore o di una quercia, di un verme fangoso o di uno splendido uccello, di una scimmia o di una persona, credo che faremmo la cosa migliore a riconoscere che la vita è un processo attivo e non passivo. (…)  E’ questa la natura stessa del processo che definiamo vita.” (1980)
Questa tendenza a conservare se stesso e a sviluppare il proprio potenziale non è determinata solo biologicamente, ma dipende dall’interazione dinamica tra la persona e il suo ambiente. Perché si sviluppi pienamente è allora necessario che la persona trovi soddisfazione ai propri bisogni, da quelli basilari fisiologici a quelli più spiccatamente psicologici, relazionali ed esistenziali.

Uno dei principi più rivoluzionari, introdotto con tanta forza e chiarezza da Rogers è che l’efficacia di una psicoterapia, come di qualsiasi altra relazione d’aiuto, non dipende tanto dalle conoscenze, abilità e competenze tecniche del professionista, ma dal suo modo di essere e dalla qualità della relazione che si instaura con la persona che chiede aiuto.
Lo scopo della psicoterapia viene definita in termini di facilitazione del cambiamento e il compito del facilitatore è quello di creare le condizioni che permettono alla persona di attivare le proprie intrinseche risorse di autorealizzazione.

Rogers indica alcuni nodi fondamentali intorno ai quali si concentra l’efficacia della relazione d’aiuto: si pone anzitutto il problema di poter essere percepito dal cliente come degno di fiducia. Si chiede cioè in che modo l’altro possa pensare e sentire di poter fare affidamento su di lui, di trovare in lui qualcuno che si prenderà a cuore i suoi problemi, che non lo abbandonerà nel momento del bisogno, che non fingerà e non mentirà. La strada principale per essere percepito come degno di fiducia, dice Rogers, non è quella di mostrarsi in ogni momento e ad ogni costo come una persona disponibile, fidata, comprensiva, quanto piuttosto quella di mostrarsi così come si è, di essere autentico.
Rogers definisce questa competenza del professionista congruenza e la descrive come uno stato di accordo tra l’esperienza e la sua rappresentazione cosciente. Indica cioè che il facilitatore sia in contatto con i propri sentimenti ed emozioni in modo autentico, non censurato né distorto, e che si relazioni con il cliente sulla base di tale consapevolezza, senza fingere né mascherarsi.

Un’altra qualità relazionale evidenziata da Rogers riguarda la possibilità per il facilitatore di accogliere ed accettare l’altro così com’è, in ogni suo aspetto, senza giudizio né condizioni, di accettare quindi la direzione del cambiamento (o l’apparente mancanza di spinta verso il cambiamento) da lui scelta momento per momento, senza avere bisogno o desiderare di indirizzarla. Questo significa dare il benvenuto alla persona, legittimarla, confermarla e convalidarla non solo e non tanto nelle sue parti equilibrate e “ben funzionanti”, ma proprio in quelle parti più incerte, e problematiche, “difettose”, “zoppicanti”.

Una ulteriore competenza del facilitatore riguarda la capacità di entrare nel mondo dei sentimenti e significati personali dell’altra persona, in modo così intimo e profondo da percepirli come se fossero propri (senza però mai perdere la qualità del come se, sottolinea Rogers), perdendo in tal modo ogni significato la personale valutazione e giudizio. Questa capacità viene definita empatia e Rogers si riferisce ad essa come la “capacità di immergersi nel mondo soggettivo altrui e di partecipare alla sua esperienza nella misura in cui la comunicazione lo permette” (1965).

“Ho l’impressione – conclude Rogers – che la relazione d’aiuto ottimale sia la relazione instaurata da una persona psicologicamente matura”.

Le psicoterapie corporee

Sin dalle prime fasi della psicoterapia moderna si è sviluppata una corrente che ha portato la propria attenzione al corpo e ai suoi legami con la psiche. La stessa psicoanalisi iniziò con l’utilizzo congiunto di corpo e parola: quando Freud abbandonò l’ipnosi per introdurre la tecnica delle libere associazioni utilizzava infatti ancora abitualmente il massaggio, come molti suoi colleghi dell’epoca e come invece avrebbe in seguito smesso di fare.

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George Groddeck

Il primo psicoterapeuta ad utilizzare in modo sistematico il lavoro corporeo fu George Groddeck, il quale pose inizialmente il massaggio al centro del suo lavoro medico di cura di pazienti che per la maggior parte oggi definiremmo psicosomatici e solo successivamente si avvicinò alla psicoanalisi. Già nel 1913 Groddeck aveva sostenuto il concetto di unità mente-corpo e successivamente elaborò quello di difese corporee, individuandone tre tipi: la controattivazione, la contrattura muscolare cronica e l’affievolirsi della respirazione. Altrettanto originale e innovativa fu la sua elaborazione del rapporto tra difese corporee e sintomi psicosomatici.

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Wilhelm Reich

Wilhelm Reich iniziò a lavorare con il corpo qualche anno più tardi, tra il 1932 e il 1935, ed ebbe senza dubbio il grande merito di essere il primo ad elaborare un ampio repertorio di tecniche psico-corporee, a tramandarle ad altri e a definirne il ruolo nella terapia. Le origini del lavoro di Reich affondano senza dubbio nella psicoanalisi, ma tra le influenze da cui scaturì il suo interesse per il corpo possiamo indicare anche il suo contatto con il lavoro di Rudolf Laban, un ex ballerino che aveva ideato un metodo di lavoro finalizzato alla scoperta e alla liberazione del “movimento naturale” e che apparteneva al “movimento di consapevolezza corporea”, sviluppatosi in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali.

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Alexander Lowen

Com’è noto, il più autorevole seguace di Reich fu Alexander Lowen, il quale, insoddisfatto dalla metodologia del maestro, vi apportò alcuni importanti cambiamenti, sviluppando la terapia bioenergetica, che lo stesso Lowen definisce “una tecnica terapeutica che si propone di aiutare l’individuo a tornare ad essere con il proprio corpo e a goderne con quanta più pienezza possibile. Questo risalto dato al corpo comprende la sessualità, che ne è una delle funzioni fondamentali. Ma comprende anche funzioni ancor più basilari come quelle di respirare, muoversi, sentire ed esprimere se stessi.” In particolare, Lowen ha sviluppato e ampliato alcuni aspetti del modello teorico reichiano ed ha integrato e arricchito il repertorio di tecniche di intervento corporeo, apportando alcuni importanti cambiamenti rispetto al lavoro di Reich, tra cui la valorizzazione della posizione eretta e del “radicamento” a terra (il grounding).

A partire dal lavoro di questi pionieri, le varie scuole di psicoterapia corporea si sono differenziate in base alla diversa enfasi posta su differenti aspetti, tra cui ad esempio la conoscenza della struttura corporea, dei meccanismi neurofisiologici alla base della vita psichica e del comportamento, sul ruolo del corpo nelle relazioni interpersonali nel corso dello sviluppo o ancora in base alla attenzione posta nella metodologia di intervento allo smantellamento delle difese, alla risonanza empatica corporea, alle tecniche attive che coinvolgono il corpo in una sorta di drammatizzazione delle emozioni e della narrazione. Un aspetto rimasto probabilmente in secondo piano è quello relativo alla importanza del movimento espressivo, spontaneo e creativo, come invece promosso da Jacob Levi Moreno, Rudolf Laban e Juduth Kestenberg. Quest’ultima ad esempio evidenzia la fondamentale relazione e interdipendenza fra le funzioni motorie e quelle psichiche, in particolare fra specifici schemi e ritmi motori che hanno inizio fin dalla nascita, e che accompagnano particolari momenti dello sviluppo del bambino. Osservando il flusso della forma corporea presente sin dalla nascita, che si allarga e si restringe, si allunga e si accorcia, protrude e si ritrae, sostiene che questo movimento ritmato rappresenti un sistema di autoregolazione primario del sé.

Lo stesso Rogers si riferisce in realtà continuamente all’essere umano come “organismo”, il cui funzionamento è basato sulle funzioni sensoriali e percettive corporee: “Quando un sentimento precedentemente rimosso affiora alla consapevolezza entro la relazione terapeutica, ed è sperimentato pienamente e in modo accettante, non vi è la sola percezione di un movimento psicologico ben definito, ma si registra anche un concomitante cambiamento fisiologico”. Il funzionamento fisiologico riveste per Rogers una importanza fondamentale e l’attenzione per la dimensione corporea, in quanto fonte delle percezioni su cui si basa l’esperienza organismica, accompagna in modo evidente tutto il suo lavoro: “Proprio come il bambino attribuisce a un’esperienza un valore sicuro, basandosi sull’evidenza dei suoi stessi sensi, così il cliente scopre che è il suo stesso organismo a fornire l’evidenza su cui fondare i giudizi di valore. Si accorge che i suoi stessi sensi, il suo stesso apparato fisiologico forniscono i dati per elaborare giudizi di valore e per correggerli con un processo continuo”; “E’ l’accento eccessivo sul conscio e sul razionale, e la svalutazione della saggezza del nostro organismo che ci impedisce di vivere come esseri umani unificati, integrali.”
Questa visione si colloca come detto più sopra all’interno di una concezione dell’essere umano come un sistema complesso in cui le diverse componenti biologiche, emozionali, cognitive, esistenziali e spirituali costituiscono parti di un tutto interconnesso.
Questa stessa concezione viene estesa da Rogers verso una visione di grande respiro che connette la dimensione umana con le altre forme di vita e con ogni livello del nostro universo. In particolare, parlando della tendenza attualizzante, Rogers scrive: “non si tratta semplicemente di una tendenza nei sistemi viventi, bensì di un aspetto della più marcata tendenza formativa del nostro universo, che si manifesta a tutti i livelli. Così, quando forniamo un clima psicologico che permette all’individuo di essere (…) non siamo coinvolti in un evento casuale. Attingiamo ad una tendenza che permea tutta la vita organica – una tendenza a divenire tutta la complessità di cui è capace l’organismo.”

Pat Ogden

Negli ultimi anni le psicoterapie corporee hanno avuto a livello internazionale un incremento di interesse e di sviluppo, dovuto in buona parte alle scoperte nell’ambito delle neuroscienze e al rinnovato interesse per la cura di esperienze traumatiche. Questo campo di intervento terapeutico ha messo in evidenza l’utilità di includere una specifica attenzione ai diversi aspetti della dimensione corporea. Sono molti gli autori che meritano attenzione in questo ambito e rimando alle indicazioni bibliografiche per chi fosse interessato ad approfondimenti. Voglio qui solamente citare l’approccio che è risultato nella mia personale esperienza al momento più interessante e che ho avuto particolare interesse ad approfondire: la sensorymotor psychoterapy è stata fondata da Pat Ogden a partire dagli anni ’70 ispirandosi al metodo Hakomi di Ron Kurtz. Questo approccio nasce inizialmente come orientato alla cura di vissuti traumatici, con il proprio modello trifasico di stabilizzazione, elaborazione del trauma e integrazione, per ampliarsi poi anche agli effetti di esperienze di attaccamento traumatiche o disfunzionali. Ha a mio avviso il merito di tenere insieme la tradizione delle psicoterapie ad orientamento corporeo con una epistemologia di tipo fenomenologico, sganciata da specifici modelli teorici di scuole di psicoterapia, e con le più recenti ricerche in ambito neuroscientifico.

Il corpo in psicoterapia

Includere il corpo in psicoterapia può significare molte e diverse cose, non solo e non tanto in base alle tecniche di intervento utilizzate, ma piuttosto alla cornice epistemologica di riferimento del terapeuta: alla visione della natura umana, del cambiamento e della realtà in cui si riconosce. In questo senso il corpo può diventare, per così dire, un intruso, un ospite o un soggetto, a seconda del paradigma in cui il terapeuta sceglie di muoversi.

In un paradigma riduzionistico e meccanicistico il corpo in psicoterapia è senza dubbio un intruso, tuttalpiù “oggetto” di attenzione: è il contenitore della mente, l’involucro da cui derivano stimoli e pulsioni viscerali incomprensibili e incontrollabili se non portandoli al vaglio e sotto il controllo della razionalità o interpretandoli secondo significati simbolici.
Il corpo può allora diventare un ospite, là dove il terapeuta è costretto a prendere atto di non poterlo tenere fuori dalla porta, poiché i suoi stati influenzano la psiche dei pazienti/clienti (e magari perché si accorge che altrimenti rimangono essi stessi –i pazienti/clienti- fuori dalla porta!). In quanto ospite il terapeuta se ne interessa però come sostanzialmente un estraneo, uno straniero del quale tradurre il linguaggio oscuro. Oppure, in quanto ospite gradito, può includere nella terapia un lavoro sul corpo, e occuparsi delle interazioni tra mente e corpo e di malattie psico-somatiche.
Si pone qui invece a mio avviso la questione di come accogliere nella pratica concreta del lavoro terapeutico questo soggetto complesso, che risponda più al concetto di leib (“corpo vivente”) che di korper (“corpo fisico inanimato”), seguendo la distinzione posta da Husserl.
Posso leggere il corpo, la sua struttura, e riportare tale lettura all’interno di uno schema predefinito, per meglio comprendere il modo di essere e di funzionare della persona che ho di fronte.
Posso leggere nei disturbi organici del corpo i simboli di conflitti emozionali inaffrontabili.
Oppure, ancora, posso cogliere sia nella struttura che nel funzionamento organico corporeo i tratti distintivi della storia personale e famigliare della persona e dei suoi traumi, il suo ruolo all’interno della famiglia, i suoi conflitti con se stesso e con le persone significative della sua vita.
Posso poi “far fare delle cose al corpo”, basandomi sulla consapevolezza sistemica che il cambiamento ad un livello (il comportamento) porterà cambiamenti anche negli altri (emozioni, pensieri, coscienza di sé). Questo tipo di lavoro può avere diversi scopi, può ad esempio essere maggiormente finalizzato all’ “abbattimento delle difese”, all’espressione catartica delle emozioni, all’ampliamento della finestra di tolleranza, oppure ancora alla attivazione di risorse energetiche ed espressive inattive, o al ripristino di un maggior equilibrio fisiologico tra le fasi di attivazione e rilassamento.  D’altra parte, potrei anche “vedere” il corpo, pur restando su un piano di interazione esclusivamente verbale.

Questi interventi e tutti gli altri possibili acquistano però diverso significato  a seconda di quale sia il paradigma complessivo di riferimento di chi li mette in atto, cioè la cornice all’interno della quale si colloca la visione del terapeuta della natura umana e la sua concezione del cambiamento e quindi quale sia il suo atteggiamento relazionale complessivo: quello che risulta decisivo è infatti, al di là delle tecniche e delle specifiche metodologie, esserci come persona globale in relazione con un’altra persona globale.

Nel corpo di ogni persona esistono tensioni muscolari e compensazioni posturali che parlano della sua storia personale e famigliare: tensioni nei piedi, nelle caviglie o nelle ginocchia potrebbero ad esempio dire qualcosa sulla difficoltà di abbandonarsi alla gravità, di sentirsi saldamente radicati a terra, sulla paura di sapersi reggere sulle proprie gambe; spalle rigide e chiuse potrebbero esprimere il bisogno di proteggersi, di non lasciarsi ferire nei propri sentimenti, mentre spalle sollevate parlano forse di paura verso un pericolo esterno, mentre spalle retratte della difficoltà ad affermarsi e della paura della propria aggressività e spalle curve della difficoltà a credere nelle proprie capacità e a pensare che “ne valga la pena”; tensioni nel collo o nella mandibola e il respiro bloccato sono altre manifestazioni che possiamo osservare in ogni persona, come naturalmente in noi stessi, e che possono essere segnali di rabbia non espressa (e magari non consapevole), della tendenza ad affrontare ogni cosa come una sfida o della paura a rimanere in contatto con le proprie emozioni.
E così via, potremmo continuare molto a lungo in questo elenco, parlando ad esempio delle tensioni al diaframma o intorno agli occhi, o del funzionamento dell’intestino e dell’apparato digerente tutto, oppure ancora della difficoltà a protendersi, a stabilire chiari confini o ad entrare in un contatto intimo, a muoversi con fluidità ed armonia.
Queste manifestazioni potrebbero essere collegate con esperienze precoci nella vita della persona, forse anche intrauterina, così come da esperienze particolarmente impattanti in età adulta, come veri e propri traumi: il grado di benvenuto nella vita che abbiamo ricevuto, il grado di comprensione e accettazione dei nostri sentimenti e bisogni, di sostegno alle nostre attitudini e desideri di ricerca e sperimentazioni, il grado di rispetto dei nostri confini corporei e psicologici e del nostri bisogno di contatto e intimità ha influito non solo sul modo in cui pensiamo a noi stessi e agli altri e in cui gestiamo le nostre emozioni e le nostre relazioni, ma anche sul modo con cui il nostro corpo si è organizzato nella sua struttura muscolo-scheletrica, nel funzionamento dei suoi organi e apparati interni, ad esempio per la respirazione e la digestione, e nelle sue tendenze all’azione, ad esempio nei comportamenti di connessione e sintonizzazione, di attacco/fuga, di congelamento, di esplorazione, di ritiro, di gioco spontaneo, della sessualità.
Il corpo possiede enormi e straordinarie capacità di adattarsi e di mediare tra richieste diverse, provenienti dall’interno di noi stessi così come dall’esterno. Qualsiasi cosa esprima va visto come parte di una straordinaria complessità nella ricerca di autoregolazione e autorealizzazione: il nostro corpo è intelligente e l’intelligenza del corpo non è presa a prestito dalla mente, non è l’intelligenza mentale messa al servizio del corpo, ma è una forma di intelligenza sua propria, che contribuisce a regolare il funzionamento complessivo dell’organismo ad ogni livello.
Parte della sua intelligenza sta nella flessibilità, che gli permette di adattarsi alle più diverse esigenze e richieste, materiali, psicologiche e relazionali.
Ogni sua manifestazione va quindi vista come espressione di questa intelligenza, come il modo che ha trovato per mediare tra richieste e bisogni diversi e quindi come espressione della sua capacità di contribuire alla tensione verso la miglior realizzazione possibile dell’organismo intero.
La complessità di situazioni che il corpo, come l’intero organismo, si trova ad affrontare, è tale che nel corso della sua storia possono rimanere attivi meccanismi non più necessari ed efficaci per il suo funzionamento, così come è possibile che il costo di alcune mediazioni diventi ad un certo punto eccessivo e si manifesti in forme sintomatiche: l’organismo può rimanere bloccato in forme di organizzazione che lo limitano, dominato da paure, da vincoli e obblighi che rallentano e limitano l’espressione delle sue potenzialità.

Includere il corpo nell’orizzonte di un processo terapeutico significa allargare le possibilità di esplorazione di nuove forme di auto-organizzazione che permettano maggiore vitalità e creatività nel rapporto con se stessi e con gli altri e rendano l’espressione sintomatica non più necessaria: maggiore radicamento e quindi presenza a se stessi e agli altri, espansione ed autoaffermazione, e quindi contatto con i propri desideri, con la propria volontà, motivazione, bisogni e intenzioni, definizione di confini solidi e permeabili al tempo stesso, connessione e differenziazione tra parti di sé e tra sé e gli altri, integrazione tra diverse esperienze e tra diversi livelli di esperienza.
Qualsiasi forma di lavoro corporeo richiede, oltre ad una grande esperienza e competenza, anche grande cautela e sensibilità. Anche perché estranei alle abitudini e sensibilità generalmente diffuse nella nostra cultura, il contatto con le sensazioni viscerali, l’attenzione verso gesti, posture e stati energetici del corpo, l’attivazione muscolare vissuta nella dimensione della coscienza corporea (e non del fare di un corpo-oggetto) possono facilmente mobilizzare vissuti profondi e potenti che possono avere funzione terapeutica solo se sono tali da essere contenute all’interno della coscienza.
Ci sono esperienze che coinvolgono un livello psicofisiologico che esclude il coinvolgimento della corteccia e quindi la simbolizzazione consapevole e ciononostante possono essere integrate dalla coscienza corporea e agire quindi come fattori facilitanti la tendenza attualizzante organismica.

Altri e più ampi orizzonti

Vorrei infine fare almeno un breve accenno ad una dimensione che è entrata a far parte in modo sempre più chiaro e stabile della mia vita personale e professionale. Ne parlo con estrema cautela, accortezza, vorrei dire sottovoce, come si fa con le cose più preziose, potenti e sacre.

Già lavorando dalla fine degli anni ’90 con persone provenienti da altri contesti culturali avevo dovuto relativizzare la concezione della realtà, dell’essere umano, della malattia fisica e psichica con cui sono cresciuto e sono stato educato e professionalmente formato.
I percorsi terapeutici con queste persone mi avevano messo di fronte a spiegazioni e comprensioni della vita e in particolare del “male”, della sofferenza e del dolore psicologico, che solo per arrogante e presuntuoso etnocentrismo vengono ancora oggi così spesso etichettate come primitive, se non folkloristiche.
Una delle componenti fondamentali di queste visioni riguarda il rapporto tra il visibile e l’invisibile, tra il mondo materiale e quello spirituale, tra l’umano e il sacro.
Per poter lavorare con queste persone ho dovuto trovare il modo per includere nel mio orizzonte di senso e nel mio discorso elementi generalmente estranei al mondo tradizionale della psicologia e della psicoterapia e discutere di spiriti, di protezioni, di fatture, di volontà divine.
Queste esperienze hanno alimentato una tensione già da molto tempo presente in me verso quella che chiamerò dimensione spirituale.
Letture, incontri e pratiche mi hanno offerto e mi stanno offrendo l’opportunità di addentrarmi sempre di più in questa dimensione, che non si riferisce nella mia personale esperienza ad alcuna specifica religione, pur rispettandole tutte e cogliendo in ciascuna degli elementi di stimolo e arricchimento.
Sono molti e diversi i modi in cui il mio modo di concepire la vita e il mio lavoro si è modificato alla luce di questi approfondimenti e non è per me possibile in questo contesto parlarne in modo esaustivo. Riguardano fondamentalmente l’orizzonte ultimo dell’esistenza e la possibilità di abbracciare una visione che non tenga distinti non solamente corpo e mente ma nemmeno questi e lo spirito: è possibile allargare il proprio orizzonte e il proprio sguardo sino ad includere tutte queste dimensioni, sentendoci parte di qualcosa di molto più grande di noi, in cui possiamo trovare il nostro posto e il senso del nostro essere in vita.

SITOGRAFIA

Abraham H. Maslow
Carl Rogers
Fritz Pearls
Rollo May
Gordon Willard Allport
George Kelly
George Groddeck
Wilhelm Reich
Jacob Levi Moreno
Rudolf Laban
Juduth Kestenberg
Pat Ogden
Ron Kurtz
Sensorymotor psychoterapy